La mappa rappresenta l’interno di un essiccatoio per le castagne.
Segni convenzionali
Linee rette, spesso doppie – pareti, terreno, tetto, finestrella, tramezzo;
linea di pallini – graticcio del tramezzo;
pallini sparsi a mucchio – le castagne ad essiccarsi;
linee leggere sinuose e a spirale – fumo;
linee sinuose più grosse – le braci;
rettangoli pieni intrecciati – la legna che brucia;
area righettata – finestrella.
Visitiamo l’essiccatoio
Disponete la mappa in verticale con la scritta in alto. Fatene pure un’esplorazione generale frettolosa, ma subito vi sarà evidente che siete di fronte all’immagine di una casetta.
Così è infatti: l’essiccatoio (o metato, o canniccio a seconda dei luoghi) è proprio una casetta molto semplice che sorge in mezzo ai castagneti o presso le case dell’Appennino tosco-emiliano. Da queste parti la coltura delle castagne ha fornito di che vivere per quasi un millennio di inverni.
Le mura sono in pietra arenaria e anche il tetto è fatto da lastre di arenaria dette “piagne”. La superficie in pianta andava dai 10 ai 20 metri quadrati poiché la dimensione era proporzionale all’estensione del castagneto.
L’intero ambiente è suddiviso in due spazi (uno sotto e uno sopra) per mezzo di un graticcio o canniccio orizzontale, posto all’altezza di circa due metri da terra. Il graticcio è costituito da assicelle rimovibili di legno di castagno, installate parallelamente, con le estremità inserite all’interno di scanalature ricavate nelle pareti contrapposte o appoggiate su travi parallele.
L’essiccatoio ha solo due aperture: una porticina per accedere al locale inferiore e una finestrella in quello superiore.
Nella parte inferiore ci va la legna di castagno che, accesa, alimenta la brace per 30-40 giorni. Sopra, sul graticcio, vengono caricate le castagne attraverso la finestrella. Il mucchio diventava alto 50-70 centimetri e il peso di decine di quintali. Il calore delle braci sottostanti le faceva man mano seccare. Dalla finestrella esce anche il fumo. Per raggiungere la finestrella c’era una scala esterna oppure, dato che siamo in montagna, bastava girare attorno all’essiccatoio e risalire la china per trovarsela ad altezza d’uomo.
Fu Matilde di Canossa ad introdurre alla fine dell’undicesimo secolo la coltivazione del castagno in Appennino e le castagne hanno fornito l’alimento principale di queste popolazioni durante tutti gli inverni e oltre, fino a metà del secolo scorso.
La raccolta nei castagneti di proprietà avveniva durante il mese d’ottobre e terminava all’inizio di novembre. Dopo, era permesso a chiunque (ai cosiddetti “raspatori”, cioè ai più poveri) di raccogliere il rimanente.
Poiché il focolare occupava solo una porzione del terreno, restava spazio per potersi riscaldare accanto al fuoco; cosicché la parte bassa, sotto al graticcio, rappresentava in pratica il salotto dove, a sera, ci si ritrovava per le cosiddette veglie, raccontando storie al tepore delle braci che duravano fino a metà dicembre.
La presenza di qualcuno all’interno durante l’essiccazione serviva inoltre a tenere il fuoco sempre acceso sì, ma basso, perché non raggiungesse il graticcio, e anche per dissuadere eventuali ladri. Una o due volte le castagne venivano rigirate per farle seccare in modo omogeneo: era un’operazione molto delicata e laboriosa che doveva essere svolta da persone esperte (un tempo veniva eseguita dai più anziani).
Detto tutto questo non risulterà difficile decifrare la nostra mappa.
La doppia linea in basso è il terreno (sono rari i casi di pavimentazione!) fatto con la stessa arenaria delle pareti e del tetto. Poggiati sopra ci sono rettangoli pieni intrecciati che rappresentano i pezzi di legna di castagno (tutto nell’essiccatoio era derivato dal castagno), e al disopra della legna ci trovate linee che formano angoli acuti: sono le fiammelle che non dovevano essere alte, ma braci. Sopra ancora, linee più leggere e a spirale indicano il fumo. Osservate però che il fuoco non occupa tutto il terreno, cosicché tra questo e le pareti restava posto per chi avesse avuto voglia di riscaldarsi o il compito di sorvegliare.
Un graticcio, che qui rappresentiamo con una linea di pallini, separa il locale inferiore da quello superiore. Sopra abbiamo rappresentato con diversi pallini il mucchio delle castagne messe a seccare. Sopra le castagne trovate ancora a destra e a sinistra due spirali di fumo e al centro il rettangolo righettato della finestrella. Infine, ancora sopra ci sono i due spioventi del tetto senza camino, perché il fumo usciva dalla finestrella.
Ad essiccazione avvenuta, bisognava sbucciare le castagne. A questo scopo si usava la “regina” (altrove detta “stanga” o “pigione” o “frugone”): un bastone con una corona metallica dentata. Con questo attrezzo si schiacciavano le castagne contenute in un “vigoncio” o bigoncia o pilla di legno.
Ma spesso, tolta la buccia restava la sansa, quella pellicina che troviamo tra la buccia e la polpa. A toglierla si usava la “vassora”, una sorta di vassoio che abili avambracci sbalzavano verso l’alto facendo roteare le castagne che in questo modo si liberavano della sansa. Solo a questo punto si potevano portare al mulino per farne farina dolce con cui fare piccole focacce (“patolle”) o polenta o dolci come il castagnaccio.
Le fasi della lavorazione
In primavera si potavano i castagni;
in estate si puliva il terreno del castagneto;
in ottobre si raccoglievano le castagne;
tra novembre e dicembre le si seccavano;
poi erano da sbucciare e mondare dalla sansa;
in dicembre si portavano al mulino pagando il mugnaio con parte della farina;
e FINALMENTE!!! la farina veniva impiegata nelle povere cucine di montagna.
Le tigelle
C’è una piccola focaccia diffusa nell’Appennino tra Bologna e Modena che ormai chiamiamo “tigella”. È fatta da una pasta di acqua, farina, strutto e lievito; si taglia lungo lo spessore, come un panino, e la si farcisce con salume, formaggio ed altro, benché il modo migliore e tradizionale la voglia farcita col pesto di lardo, aglio e rosmarino, cosparso di parmigiano grattugiato.
In montagna però chiamano questa “crescentina”, perché “tigella” è lo stampo di terracotta mista a polvere di marmo che serviva per farle. La tigella accoglie la pasta cruda e le imprime una figura caratteristica: il cosiddetto “sole delle Alpi”, cioè una stella a sei punte, i cui raggi hanno forma leggermente rigonfia di petali. Sopra questo stampo si appoggia una foglia di castagno, e sopra un altro stampo con altra pasta, e così via fino a farne una pila da mettere a cuocere nel camino. Più anticamente, invece della farina di grano si usava invece la farina di castagne.
Nota: il “sole delle Alpi” è un elemento ornamentale molto antico, usato in Appennino come decorazione negli edifici a cui lavorarono i “maestri Comacini”, abili architetti che provenivano da Como tra il 1300 e il 1500.